together we’re invicible

Tengo 11 años, tengo 15 años, tengo 18 años, tengo 22 años. Tengo 28 años y todavía tengo todos los demás. Cada cuatro años un ciclo y este último no me ha gustado.

Smetti di scrivere se vuoi vivere, smetti di leggere se vuoi dormire. Smetti di sognare se vuoi avere una vita reale. Eppure il 60 % della mia sostanza è incoscia, eppure tutti i miei ricordi, sogni ed incubi sono interferenze nel mio presente, così tangibili, così reali e così dolorosi come prima. La verità è che non ho mai voluto togliermi di dosso tutti questi traumi, perchè il dolore era anche un sentimento così penetrante e cosi forte che l’ho cercato persino quando sprofondavo, per cercare di sentire qualcosa.

E se dicessi che la mia missione nel mondo era amare, era perchè sarebbe stato implicito anche soffrire, l’altra parte della medaglia, non capita da chi non si spiega come è possibile la mia situazione. Come è possibile il non riuscire a dimenticare le promesse fate a 16 anni, promesse mantenute nel tempo.

Non ho potuto amazzare le fasi pasate della mia vita, perchè le proteggo come una candela in mezzo al buio. Perchè credevo che loro mi avrebbero dato la forza per continuare, e loro sono invece quelle che mi bloccano.

La mia psicologa mi cura dicendomi di scrivere, e ci ho messo così tanto a correre velocemente per non farmi acchiappare dai miei traumi… Ora ,mi sono fermata e mi sono girata per guardarli in faccia. È così doloroso.

Primo livello, completato, Secondo livello, una scatola di Pandora che non avrei mai voluto aprire, un trauma che ho sempre conosciuto e riconosciuto come tale. Secondo livello, il formamentis della mia personalità. e della mia debolezza. L’acettare, sopratutto e sopratutti, di essere molestata, di essere buttata per terra, solo per essere amata. Un amore così grande che non è stato dimenticato, un sentimento al cui mi agrapo con unghie e denti e che si mostra davanti a me più vero di qualsiasi realtà ordinaria. Come chiudere di nuovo gli occhi per tornare al sogno che facevi prima di svegliarti. Rimpiangere un passato perduto per il resto della tua vita.

Se la tua vita durassi 40 anni… se la mia vita durassi 40 anni, non proverei più a disintossicarmi dalla mia droga. Andrei a cercarla e me la godrei fino in fondo. Mi costruirei il mio mondo di fantasia, e ci rimarrei lì. Meglio viviere nell’imaginazione colorata che in un mondo griggio. Sicuramente questa risposta non l’avrei dato qualche settimana fa, preocupata como era di rimanere con i piedi per terra. Ma io non appartengo a questo mondo tanto quanto al mondo della mia mente. Dove gli amori continuano e non sei ferita, solo sei ferita per amare con più forza. Un sogno dentro di un sogno. Tornerei a creare una vita diffusa, con i bordi permeabili, guardando verso el cielo e vivendo verso il basso. Prenderei un aereo e mi presenterei ovunque il mio primo amore fosse, proverei a parlarci, tanto la mia vita durerà solo dieci anni in più. Non avrei il rimpianto di una cosa inconclusa, di una montagna russa spezzata in mezzo alla discesa. Recupererei le mie amiche quando ancora non ero una delusione per loro ne loro una ipocresia per me. Mi obbligherei a tornare indietro di dieci anni, e se quella vita non mi appartenesse di più, andrei a cercare una droga di quelle vere, di quelle alucinoggene, oppure mi butterei dalla finestra.
Quello che farei, se la mia vita durassi soltanto 40 anni, sarebbe smettere di lavorare, smettere di proietare, smettere di preoccuparmi per gli orari, le ore di sonno, il numero di dolci, i km caminati, la salute della mia testa.

Metterei la musica a tutto volume, farei gli incantesimi, con il mio superpotere di provocarmi stati di animo con una fotografia o una canzone.

Smetterei di cercare di essere una persona normale. Darei alla mia malattia tutto lo spazio abitabile, la farei impossessarsi dal mio corpo. Seguirei questo istinto. Ricorderei le parole di mia zia Linda, dicendomi di non essere sbagliata. Sarei una buona influenza per qualcuno, sorriderei alla gente per strada, e non mi importerebbe di sembrare troppo pazza, troppo intentsa, troppo sognatrice, troppo esagerata. Sarei esagerata, goderei i miei pasti come se fosse al ristorante stellato, farei i viaggi e rimarrei senza un soldo, farei tutte le mie esperienze, mi porterei in viaggio tutte le persone che sono state importanti per me. Inizierei a non dormire la notte. Farei della mia insomnia parte della mia identità, finchè non mi importassi più e i miei cicli circadiani si metessero a posto. Mi sarei giá operata la vista, andrei in una spiagga nudista. Passerei un anno intero in Latinoamerica, un altro in Australia. Parlerei con tutti gli stranieri o persone di altri paesi, tornerei a scrivere e a leggere e a immaginare altri mondi e confondere quei mondi con la realtá, non mi importerebbe più la conseguenza di stato di animo di una canzone, vorrei vivere nel pasato, nel presente e nel futuro contemporaneamente. Mi dichiarerei felicemente ingorante a quelli che aspettano qualcosa di te. Andrei a tutti i concerti dei KISS fino alla fine, andrei ai concerti di Muse y di RHCP con il mio ex fidanzato, che da persona manipolatrice potrebbe continuarmi a manipolare, ma in una misura molto più piccola perchè sarei forte, libera, pazza, e con un piede nel aldilà e un altro nel mondo della mente. E questo sarebbe fantastico, perchè sarei felice con quello che tutti mi avrebbero vietati.

E sicuramente, così, non avrei più muco nella gola, perchè non mi dedicherei a mangiare cose che mi danno allergia ma mi fanno sentire felice. Neanche avrei il colon irritabile, perchè accettare e accentuare la mia malattia mi creerebbe una sensazione di benessere, e mi sentirei volare. E quando, tal volta, mi sentisse persa e senza consolazione, in una ruota che gira senza che io la guidi, mi metterei a dormire con la vita che ho adesso, per recuperare un pò di ripetizione e sicurezza. Non perderei a nessuno, perchè non ci sarebbe una scelta da fare. Tutti farebbero parte della mia vita come lo fanno nella mia testa.

La lunática y sus grupos sanguíneos

La mia vita scorre come un fiume
dopo aver guidato fra le curve siamo arrivati al lago
abbiamo buttato le nostre preocupazione, galeggiano e nuotano con le trote
ancora non è stato suficente

Ora ti travesti di persona triste, di persona ingrata, di persone con il cuore legato alle caviglie, preso a calci dalla vita e dai miei piedi. Ora ti vedi guardando il mondo dalla finestra, come le signore nelle case del dicianovesimo secolo. Guardando il pezzo piccolo di mondo che ti è stato dato.

È un mondo troppo piccolo, è facile sentirsi sicura e disperata allo stesso tempo. è facile che vengano i tuoi ricordi a visitarti, i tuoi fantasmi, la tua camicia a quadretti. è inutile che tu cerchi di spazzarli come la polvere degli angoli. È inutile ricostruire un mondo che non esiste piú.

Stiamo parlando del materiale del tetto quando ancora non ho comprato la terra per costruire la mia casa. Potrei eliminare qualche porta, qualche finestra. Non posso eliminare i muri portanti. Non posso sentirmi sbagliata se piango a dirroto per aver perso qualcosa. La verità, non ho perso molto, ma ho guadagnato.

Ho guadagnato le parole che non so più congiugare, alle quali non posso mettere fine perchè si muovono costantemente tra la massa cerebrale. Le parole non servono niente, solo gli atti, ma queste parole mi tengono vestita.

Non voglio fare più la scrittrice, non ricordo più come si scrive. Voglio smettere di addobbare il mio albero di natale finto, di abbellire qualcosa che non si è ancora creato. Vorrei tornare allo esenziale. Pensare e scrivere mi sta facendo male.

La cabra y la encina ahora debería llamarse la loca y el pino, la triste y el mar, la lunática y sus grupos sanguíneos.

Torre quemada

Torre quemada

sta brucciando dentro di me e sono posseduta

me estoy riendo volviendo a mi casa, aunque me falten 40 minutos, 40 km o 40 años
estoy teniendo revelaciones en voz baja y todos los aniversarios

octubre mi primera herida

mi primer mes en Italia en una ciudad desierta

mi primer atardecer a las cinco de la tarde

y ahora mi primer otoño con los cinco sentidos y también el sexto: mi intuición.

Estoy intuyendo un fuego, soy el oxígeno de mi hoguera, la vuelta de infinito más dura y larga puede estar terminando. Estoy en un pedestal al que he llegado raspandome las rodillas, rajándome las muñecas.

De todo esto hablaba con dieciséis años, cuando decidí rebautizarme, sin saber que mi nombre sería premonitorio.

Una torre quemada, destruida, no se veían las vigas para volver a construirla. Unas cenizas de las que no hubiera querido hablar nunca. Un fuego interno, completamente apagado.

Había abandonado a la niña, a la adolescente, a la chica. Me había ido directamente a la anciana. Las cartas no parecían decirme nada, las llamadas eran útiles como el agua caliente. Todos intentaban romper mis cadenas y yo las volvía a atar, volvía a reventar mis heridas para crear mis cicatrices permanentes.

Aún no he terminado, ni de luchar ni de quemar. Porque la destrucción y el trauma son mi propia construcción. Sólo puedo salir de aquí quemándome.

Pero ahora me estoy preparando para la batalla. La siguiente, que no será la última. Y tengo un traje nuevo. Llevo mis colores y mis armas. Llevo el oxígeno para hacerme grande. Tengo la banda sonora de mi futuro. Aunque no lo veo, no lo he perdido. Aunque estoy quemada, estoy más y más viva.

El clavo (II)

El clavo (II)

Puede ser una señal, y casi te deslumbra.
En el dolor, no obstante, el abrazo es más rápido que un cepo.

 

Te he dejado dormir tres horas, y de vez en cuando iba a mirarte descansando, como un niño tranquilo y pequeño, sin ninguna preocupación por la cabeza. Cuando te has despertado, he inspeccionado tu cara en todos sus detalles, tratando de saber si este flaco favor de siesta larga te habría devuelto todos los años de vida que te he quitado a base de disgustos.

Cuando hablamos de una persona que esta mal, empezamos a analizar las características de la enfermedad, ya sea leve o grave, real o ficticia. Tomamos el pulso a la gravedad del asunto, intentando medir su importancia a través de los daños colaterales que crea. Ponemos la vida del paciente patas arriba. Intentamos mirar los síntomas desde puntos de vista freudianos, atribuimos la ausencia de proteínas a la sensación de total abandono. En todo este proceso, el paciente está solo. No porque no haya médicos, profesionales, familiares y novios que no beban los vientos por el paciente, que no intenten dar una mano allí donde sus posibilidades les permitan. El paciente está solo porque la burbuja de la enfermedad es grande, tiene los bordes espesos como el cristal de las gafas con demasiada miopía. Desde allí dentro, uno no es capaz de escuchar los gritos de auxilio del uno, los sentimientos amorosos de los otros.

Se crea una barrera en las enfermedades que no se ven.

Son enfermedades que atacan la médula ósea, el cerebro, la atención y la capacidad de reconocerse en el espejo. El paciente se siente otro y ese otro no es si no la figura esperpéntica reflejada en los espejos del callejón del gato. Y de todo esto no podemos dejar constancia, trazo, descripción que pueda dar una visión objetiva, un informe y una receta.

No voy a divagar de la vida, de las luces y de los claros. A veces, el paciente no es capaz de ver ni lo uno ni lo otro. A veces el paciente no ve nada más, porque el paciente tiende a ser egoísta, como característica de su enfermedad solitaria de la que es portador.

Por eso el paciente no está al tanto de los muertos o víctimas que deja por el camino, y que hace marchitar con su aliento viciado de pensamientos circulares. Los demás, las víctimas son esos que rodean al paciente, de manera atolondrada, sin saber cuáles son las palabras, los gestos, los momentos más adecuados para hablar. Las opiniones aceptadas y las inadmisibles, las teorías descabelladas y aquellas desesperadas. Los que pierden el sueño y la vida sin saber por qué o cómo han podido aunque sea de manera periférica provocar o dejar que eso le pasara al paciente. Cómo se llegó hasta ese punto. Cómo ocurrió.

Es inútil dar vueltas al parte meteorológico porque comprobar el tiempo cada dos días no impedirá que llueva el día que menos lo deseas. Es inútil empecinarse al por qué , al cómo, a las estrategias innovativas que sostendrán tu delicado equilibrio entre el pensamiento razonable y la sospecha de una enfermedad incurable. Es inútil hacerlo porque no lo hacían nuestros antepasados, no lo hacían aquellos que venían delante. Todos los que lo hicieron tuvieron la misma amarga fortuna de Anna Karenina.

El paciente rompe la burbuja de su dolencia para mirar las caras ajadas y descompuestas de los que han perdido el sueño con ellos. El paciente quiere darles de nuevo el color a las mejillas, la vitalidad que él mismo se chupa para intentar salir del hoyo. El paciente sabe que no escaparán despavoridos, que solo pocos conocen las consecuencias de taponar una fuga de agua con la mano. Pero, afortunadamente, el paciente no está dispuesto a destrozar más vidas que la suya. Y ese pensamiento puede ayudar al paciente a recoger sus bártulos, ponerlos en una habitación, hacer la magia del orden y tirar el 90 por ciento de vida que no sirve, y volver a empezar de cero, desde lo básico, aprendiendo a dormir, a comer, a vivir.

Aprendiendo a disfrutar del mejor día de su vida en los últimos siete meses, cuando ha tocado el fondo, y entonces se deja llevar y ve cómo es posible volver a vivir.

 

Para el amor de mi vida,
che conosce tutto e mi ama ancora.

Gli uccelli

Ten cuidado, cuando vayas a hacer una mudanza, cuando vayas a cambiar país, costumbres, horarios, luces del día y la noche y cielos. Ten cuidado y pon atención en la música que esos días de descubrimiento y ansia, de expectación sin expectativas, vas a llevar en tus oídos. Porque después esa canción te devolverá, con un bofetón, a ese momento mágico y meravilloso, donde yo no conocía la tierra que iba a ser parte de mi casa sin remedio (por mucho que me haya obstinado en negarla). Te devolverá, un sábado por la mañana, sin planearlo, a tardes de octubre cálidas como veranos, donde paseabas por calles nuevas desorientada, donde esperabas el sonido del interfono, bajar corriendo las escaleras con el corazón (ya) en la boca, como ibas a llevarlo de ahí en adelante, para jugar con el agua, con las olas, y con alguien que parecía un jeroglífico exótico y estimulante.
Y eran esos los ucelli que yo veía caer en picado mientras caían las tardes más temprano que en otros países, y esperaba la llegada de la noche en medio del mar en calma, aprendiendo a mover mis brazos con simetría y ritmo, aprendiendo a bañarme en el mar de octubre, en un momento en el que Crotone, el tiempo, y mi vida, no tenían un momento futuro, no tenían un mañana, porque no era capaz de saber qué sucedería al día siguiente.
Por eso esta mañana, unas semanas más tarde del día en que la vida que quiero y deseo empezó, y reconociendo que cinco años me han servido para darme cuenta de eso, celebro con orgullo cada paso que he dado y todas las situaciones que me han llevado hasta aquí.
Celebro la casualidad, o el destino. Celebro lo que estaba en mi mano y las circunstancias que no puedo controlar. Celebro el mar, el bosque, el lago, y las calles sin aceras. Celebro mirar para atrás y saber, ahora con seguridad, que no cambiaría ni un segundo de lo que he vivido. Celebro saber que esta es la vida que amo, que quiero, y que cinco años en ella son sólo el principio.
Crotone y Stefano llegaron a la vez para darme este pacto indisoluble de alegrías y penas. Ahora puedo mirar con serenidad las cosas. Y puedo quitarme las gafas con las que veo una parcial versión de la historia. Ahora puedo decir, que de momento, mi vida me ha gustado y me gusta. Y si vamos a elegir otra, será con un regalo del sur bajo el brazo.
Y quizá elegiremos canciones mejores para nuestros inicios y reinicios.

La semilla

Jueves, momento de viajar.

Y con los viajes viene el estrés, la rabia, y el “no eches pa trás el asiento que ya no me entran ni las piernas”.

Y por eso más que nunca me pongo a mirar el mundo desde fuera de mi ventana (a veces me gusta hacerlo pero no demasiado a menudo) para ver cómo es que nos movemos y nos enfadamos mientras vamos en coche, vamos en tren, y sobretodo, sobretodo, mientras vamos en avión.

Entonces no voy a enumerar todo lo dicho en los “No espacios” que escribió alguien como si me hubiera leído el pensamiento respecto a mi odio por los aeropuertos.  Porque las ganas de montar un pollo se multiplican cada vez que paso por uno, y en cualquiera de las veces en los que soy un caja de amazon sin las botas puestas y con todo lo que cabe en mi mochila fuera de ella cada vez que alguien necesita comprobar la seguridad de todos los viajantes.

En lo que me voy a centrar es en una semilla que nunca pensé que se instalaría en mi cerebro. Una semilla que he evitado en todos estos años considerando que algunas de las cosas que he oído en mi casa y durante mi educación eran algo machistas, incluso viniendo de las matriarcas de la familia. Y por eso te acostumbras a ciertos razonamientos, automatizas ciertas frases que escuchas mientras apagas la lucecita que en tu interior se enciende diciendo “micromachismo en el aire, vaya, acabas de decirlo tú también. Vaya, serías capaz de aceptarlo sin muchos problemas.” Eso era así, a pesar de todos los cretinos de mi vida con los que he experimentado la disminución de lo que yo era a nivel emotivo, físico y de carácter, haciendo que mi personalidad tuviera que desarrollarse deprisa y corriendo después de los dieciocho. Eso, a pesar de todo aquello, mi actitud hacia la vida, hacia la consideración de mi vida, era arquetípicamente machista. Porque ¿qué feminista hubiera tragado la píldora de vivir en un sitio que no le pertenece sólo por estar cerca de la persona que ama, considerando su desarrollo social y laboral practicamente muerto desde entonces? ¿O quién hubiera aceptado tres años de ser mantenida por tu pareja, mientras te entrenas en tus facultades de cocina y lavadoras, esperando que el futuro sea algo más prometedor que hasta entonces? Bien. La situación era clara, y yo nadaba como un pez casi cómodo en esa pecera.

Afortunadamente el 2018 trajo consigo un cambio de rasante en todo lo que había establecido y con mucha fatiga había aceptado como permanente. Y afortunadamente fue así, aunque costó casi una depresión. Desperté de un letargo en el que me mecía, enamorada y satisfecha, con un poquito de rabia sana que me hizo cambiar las cosas de una vez por todas. Y eso fue fantástico. Porque la semilla creció y de repente todos mis sospechas fueron infundadas.

Desde que mi parte social y laboral se ha completado en el giro de dos meses dandome un sueldo, un trabajo que me enriquece y una comunidad de gente esparcida por el mundo, interesante, respetuosa, y parecida a mí de algún modo u otro, me siento una persona con una nueva energía. Y siento que la Irene que se había diluído en alguna parte ha vuelto a controlar todas sus piezas, bien enganchadas y conectadas con la mente y el corazón. Y en todo esto mi pareja demostró que la semilla de su cerebro era más grande que la mía. Me lo encontré a mi lado, en la lucha, demostrandome el feminismo que nunca será consciente de poseer. Apoyando mi decisión y motivandome a seguir cuando yo no creía en ella, y durante el resto del tiempo, cocinando, poniendo lavadoras, lavando el baño y tendiendo después de sus 9 horas de trabajo.

Así que todas is decisiones desbocadas, elegidas con el corazón y sin ningun tipo de sentido lógico, llegaban a un equilibro que complementaba todo mi camino con el de otra persona, considerándolo el mismo  sin perder la identidad y la autonomía que me pertenece. Una autonomía que me hace, ahora, sentirme completa, tener tonalidades distintas. Y sentirme fuerte.

 

Todo esto no habría sido posible sin el feminismo. Porque ahora la semilla está creciendo gracias a la comunidad de mujeres que confía en mí y me regala su tiempo y sus experiencias. Mujeres fuertes, que no ven las otras mujeres como el enemigo, la comparación, o el desafío para cazar la presa más codiciada. Que ven el trabajo conjunto como el único modo para mantener nuestra identidad, sin dañarnos. Sin andar a la gresca, con el ojo avizor y los labios fruncidos.

 

Lamentablemente, yo vivo en el culo del mundo. Donde el feminismo vive sólo en mi casa, con Stefano y conmigo que lo construimos. Por eso tantas veces evito salir del mundo que me he creado. Por eso también odio los aeropuertos. Porque se ve de todo. Y no solo en la fila para entrar en el avión siento la mirada de las mujeres, la incógnita y la reprobación cuando ven la ausencia de maquillaje, mis primeras canas sin teñir y mi ropa que no es de marca. El mundo no es cosmopolítca y urbano. La mayoría del mundo es este mundo. Despectivo y deshumano, sobre todo las mujeres entre ellas. He trabajado con mujeres y hombres y en cada trabajo rodeada de chicos me ha ido mejor. De los equipos de mujeres he salido despavorida, alimentando comentarios machistas pero desgraciadamente ciertos como “es imposible trabajar o relacionarse con mujeres”. Y ya está bien. Así siguen las cosas también por culpa nuestra. Porque no pueden poner el haghtag  metoo y seguir mirando por encima del hombro. No puedes sostener las bases de la sociedad calabresa en el hombre paga y la mujer se maquilla (podrían quemarme por decir esto pero creo que después de casi 5 años aquí puedo establecer ideas sabiendo de lo que hablo). La mayoría del mundo necesita aún el feminismo. La mayoría de las mujeres necesitan ser mujeres feministas. Y por eso, después de la negación constante, ahora me estoy educando cada vez que un pensamiento despectivo inunde mi cabeza, cuando la mujer de turno, con tanto de leopardo y bolsa de gucci, me dedique una de sus miradas lastimosas. O la próxima vez que me pidan que me maquille un poco para parecer más femenina. He pasado los últimos dos meses con la depiladora estropeada y os puedo jurar que la comicidad entre mis piernas y las de mi chico ha sido más motivo de risa que de asco. Porque, al fin y al cabo, el pelo es lo que nos hace mujeres adultas, y no niñas. Pero de eso ya hablaremos otro día.

Fuera, el ruido

Creo en nosotros más de lo que creo en mi, aunque tu crees por los dos tantas veces. Creo que la dependencia psicológica tiene que ver con todo esto como el chocolate a la planta del cacao. Y nosotros estamos en esa miscelánea, pura, y amarga. Creo que las cosas últimamente nos han ido (por separado, en nuestras propias circunstancias, nuestra creación de las personas que somos cada uno de los dos cuando no somos nosotros) bastante mal y bastante bien en mucho sentidos. Y por eso cuando todo lo periférico va hacia abajo, cuesta abajo y sin frenos en el cansancio de la vida, del trabajo, de las cincuenta bacterias y virus que decidieron inundar mi cuerpo en los últimos tres meses, ahí estamos nosotros, a veces molestos con la vida y nosotros mismos, a veces aferrados a la esperanza que nos dan nuestros sueños de futuro. Un futuro que ya no soñamos utópico, con las macetas del azféizar de una ventana que nunca nos podremos permitir. Un futuro que ahora soñamos ridimensionado, en el oro de lo que ya tenemos. La luz, el tiempo libre, la tramontana.

Ahora soy un Van Goth con un pitido constante. Me tiene siempre alerta y con las armas en el hombro. Me encuentra exhausta, preguntándome cómo una tercera criatura podría ser añadida a la ecuación mientras lavo los platos. Pensando, no es posible. Soy demasiado egoista para que aquí esté todo. Giro el metro de esquina que separa mi pasillo cocina de tu cara cansada. Y cambio de idea. Creo en tí porque eres y estñas y también porque tú crees en nosotros. Y tienes la palabra lúcida incluso cuando estás a 38 grados de temperatura. Incluso cuando cerramos la verja de la casa y el viento y las dificultades nos aislan en un cuarto en el que muchas veces el aire está viciado. Para eso sirve la tramontana en el oído otítico. Para sufrir. Pero también para no dejarse vencer por el cansancio, para estar aún despierto.

Estamos despiertos. Estamos vivos.

¿Te acuerdas cuando estaba más deprimida de lo que nunca he estado desde que te conozco? Entonces yo no veía el color del mar al que me llevaste, la luz que entraba entre las rocas mientras atardecía. Entonces yo estaba demasiado ofuscada, demasiado encerrada en mis demonios y mis lorzas aunque el verano ya estaba llamando a la puerta. Fue un periodo horrible, y cambió el futuro de un modo alucinante. Ahora esa parte de mi vida es brillante y llena de esperanzas. Así que espero que lo que tenga que venir ahora vaya a ser estrepitoso, y este agujero negro sea sólo otro de esos cambios de rasante que utilizo para impulsarme hasta el cielo. Para ver (aún) más claro de lo que este último año está haciendo conmigo. Estamos. Y estamos tan lúcidos ahora. Cansados, débiles, llenos de gripe. Pero estamos tan seguros que este credo lo recitamos al unísono, entre las sábanas, mientras se recuperan las fuerzas para seguir cansándonos.

 

f

Lo prometido es duda.

Me escapo del calor de la cama sin que me importe mucho. Últimamente son muchas las madrugadas que me encuentran así. Mirando el  techo, encadenando pensamientos ilógicos con un sentido que se encuentro solo en el duermevela que lucha con el inconsciente.

Casi todas las veces que me pasa me siento culpable. Pero no lo puedo evitar, no puedo negarme a mí misma. Tiene que quedar algo de mí para sostenerme cuando no me den nada los otros. Camino con los pies descalzos por el pasillo a oscuras como un sonámbulo dispuesto a atacar el frigorífico. Mi presa son los dígitos conocidos que iluminan las teclas del teléfono. Espero un par de tonos. El abismo me traga cuando al otro lado alguien descuelga el teléfono.

Silencio.

No lo podía evitar, sé que no puedo hacer ésto, pero no hay nada que me ayude más a dormir que todo lo que no he hecho nunca junto en mi cabeza como manchones en un lienzo blanco. Entiendo el febril aumento del látido cardíaco esperando un mensaje desde el más allá de la línea telefónica, pero sólo me responden las campanas del ayuntamiento dando las cuatro.

Mi silente interlocutor carraspea al otro lado. Escucho el nervosismo, sé que estás ahí, pero malhumorado. Con ganas de que te dejen dormir, de que te dejen vivir y no paren tu vida a estas horas de la noche. Y yo misma querría no depender de esta conversación para coger el sueño, para que mis fantasías me dejaran en paz únicamente cuando las pusiera por escrito.

Ya no sé si me siento más una heroína o una torre, si por la sangre de mis venas a veces no corre la vida de antes, y entonces tengo que inventarte (me). Están todos los fuegos apagados con las brasas aún templadas. Necesito agarrar el teléfono y sentir la respiración al otro lado  para saber que hay una parte que puede quemar aunque no pueda mostrársela a nadie.

«Porque siempre hay algo de uno mismo que ni la vida ni los otros entienden. Pero hay que mantenerlo vivo» te digo.

Suspiras ruidosamente. Creo que estas cansado de sostener mis fantasías. De ser el hilo que ata mi piel a otro mundo, el que me reservo para decir que nunca le dí todo a nadie.

Te impacientas al otro lado del teléfono.

Me siento una idiota cuando veo mi reflejo en el espejo, sentada en el suelo con la cabeza escondida entre las rodillas y el auricular en la mano. Me alegro de que tú no me veas, tantas veces tan cansada. Tan poca de la que era antes, corriendo por una autopista en julio.

«Deberías tratar de dormir» dices, por fín.

«No puedo, entonces sueño, miro el techo y no se si estoy aquí o allí»

«Natural, a mí también me pasa»

Te pasaría si te dejara dormir tranquilo.

«¿Que sueñas?» me atrevo a preguntarte.

Contestas que no quieres jugar a eso. Tengo una baraja de naipes y a cada negativa voy quemando una a una las cartas. Cuando se me acaben las oportunidades me quedaré vacía y sin imágenes que escribir deprisa y corriendo. Necesito saber algo más de los otros.

«¿Qué sueñas?» insisto.

Y mientras no respondes es como si pudiera verte allí donde estás en realidad, rígido, con la boca contraída, los hombros caídos y tus dedos índice y pulgar en continuo movimiento.

Resoplas, y como cada noche, sé que tienes el teléfono en la mano, con una varita mágica con la que poder calmar mi ansia o apagar la ultimas brasas encendidas. Ambas posibilidades como la pastilla azul y la roja. Lo único que percibo es que aguantas el aire en los pulmones. Finalmente, un instante antes de sentir la brusca interrupción de la linea, oigo tu voz resignada y serena que responde

«Torres, sueño torres»

El chico del supermercado

 

En un día como hoy, en los que la tramontana es tan fuerte que apenas te deja respirar por la nariz sin sentir dolor en la parte alta de los párpados, con el sol cayendo lentamente sobre los edificios dando por concluido el dia de manera prematura, te llevaría a tomar un café. Iría contigo, pero sería yo quien te arrastrara por las calles, como si mi espontanea voluntad hubiera sido la gota que colmo el vaso, la decisión última de hacerlo, porque invitarme a un café sería una de las cosas que te costaría más trabajo al mundo, después de verme sin bufanda, sin jersey, y sin camiseta.

Me daría por invitada, como si te estuviera haciendo un favor, con la sutil superioridad de quien imagina ya la conversación, los ojos esquivos, y el tono dudoso de tu voz, encogida por el nerviosismo.

Y serias tú, con los ojos medio bizcos de tanto mirarme el cuello y los labios repetidamente, el que acabarías por sorprenderme, y dejarme como un caído de guerra, con mis expectativas y mis convicciones de superioridad moral a la altura del betún. Porque de todos los encuentros, éste sería, quizás, el menos fortuito, después de años y años de verse entre los pasillos de un viejo sótano, diciendo las frases banales de cortesía que repetimos como dos loros. Pero de todos los encuentros, seria también el más inesperado, porque te encontraría distinto a la imagen y semejanza que uno hace de una persona, que cree conocer y juzgar al mismo tiempo. Y seguramente me demostrarías que soy yo la que siempre está equivocada, la que hace las cosas mal, la que no para de tener dudas (como, por otra parte, las tenemos todos, y todos las callamos) y me dirías, conformandote,como no soy capaz de hacerlo yo con todas las carencias de juventud y despreocupación que me faltan, que sí, igual las personas pueden ser etiquetadas, clasificadas, y metidas en distintos frascos de cristal, para una colección alternativa al lado del estante de las especias, pero que mis horas pasadas a mirar la tramontana por la ventana, con el sol que desciende sobre los edificios son todas inútiles, porque de tanto mirar a las personas me he quedado ciega, de tanto imaginar sus situaciones y rutinas me he perdido lavando los platos, y de tanto intentar conquistar a la gente con una fingida seguridad me he quedado sin armas. Sin argumentos, titubeando.

Mientras, tú me hablas de tantas cosas que aunque banales yo no he visto nunca. De una adolescencia pasada en otra lengua. De un parque húmedo y frio, bajo las luces de las farolas, dedicado a perfeccionar el arte de no morirse de frio, y sobretodo, de la supervivencia, de un trabajo logorante que no soy capaz de aceptar por mi orgullo de resabida, de letrada, de mujer de otra pasta. Yo no sabría nada de tus domingos simples, y verdaderos, y sin embargo me habría permitido el lujo de considerarlos menos. Como si mi condición de mirar por encima del hombro fuera justificado. Con el placer que produce que otros se enamoren de ti y lo vacía que te deja.

El problema de mi raíz está en el dilema que me hace renegar de la escritura, que me saca los colores y la fantasía, que me impide concentrarme en mi vida y me hace seguir demasiado las probables historias de los otros, y las vidas que no elijo y dejo atrás. Como cuando me encuentran ausente mientras me hablan y yo no escucho, condición que aceptan como natural todos los que me quieren, yo estoy a veces aquí y a veces en otra parte, sin saber cuànto de vida real tiene una o la otra. Si es verdad que en la que he escogido me encuentro a veces siendo otra persona, con tal de sobrevivir, haciéndome carnero en un rebaño de ovejas. Y tan difícil sería comprender, que mi cabeza es igual de real, y mis fantasías incombustibles e irrefenables son a veces los fueguitos que tengo que evitar para no quemarme. Yo tome un camino con mis decisiones y mi condición de imaginadora de situaciones está viviendo otras mientras tanto. Mientras miro por la ventana, mientras termino la enèsima conversación banal y salgo del supermercado.

 

Todas las historias (II)

Todas las historias (II)

 (lo prometido es deuda)

Algo cambió y se fue trasformando conforme fueron avanzando los días. La simbiosis en el principio de aquella superviviencia les había consentido acampar por unas semanas, sin la necesidad de ser nómadas, sin tener que borrar las huellas y los rastros de leña que usaban para calentarse. De día dejaban el macuto dentro de la corteza hueca de un árbol marchito y de noche hacían turnos mientras el otro dormía en el jubón. Era un simple mecanismo para apartar bestias y peligros.

Había sido así desde hace algunos días, pero últimamente ella notaba que algo había cambiado. Casi no había palabras durante el almuerzo. Cada uno dedicaba los tiempos muertos a limpiar su armas en silencio. La caza era siempre por separado, y en ella, Trincea coría por el bosque con rabia y sin cuidado, preocupada sólo por llegar lo suficientemente cansada al campamento, aunque sin presa. Se había acostumbrado a tener una cena cazada por él, algún pez de riachuelo o unos conejos. Ya no quedaba mucho de la incertidumbre.

Esto llenaba de rabia sus pulmones. Si la rabia venía de él o del bosque no importaba, la tomaba con aquel lento compañero. Le empezó a molestar el chasquido cacofónico y rítmico que fabricaba con las piedras al hacer fuego, los murmullos de palabras incomprensivas mientras dormía, su mirada buscando explicaciones en los ojos de Trincea.  No sabía cuantas lunas habían pasado desde que ella le enseñó a pintar con sangre de animal las cortezas de los árboles para no perderse, y él le había enseñado los mapas de las estrellas. Se seguía sintiéndo estúpida cuando insistía en enseñarle a separar la piel del animal a tirones, y ella era incapaz de habituarse a aquellos movimientos, como si el alma de aquella inocente presa se escapara por el aire en aquel momento. Todo aquello que en un primer instante había parecido innovativo ahora le parecía banal y exagerado, porque cada uno veía distintos colores en el atardecer y el campamento se había convertido en una pantomina de lo que eran ellos: supervivientes.

La culpa de todo la tenía el sedentarismo. Ella no pidió ser ligada a las raíces de la tierra ni a ningún ser viviente en particular. Por esto, las noches dejó de vigilar y montar guardia y comenzó a pasearse adrenalínica en la penumbra del monte.

Un día se encontró un claro de helechos, y después de dejarlos medio calvos descargando su furia contra las plantas se dejó caer contra el pino más cercano. Le llegaban los indescifrales y conocidos sonidos de Jairo entre sueños, a unos metros de allí.Confundía el apacible sonido del cerro, la confundía a ella también. Comenzó a rasgar la corteza con enfado, con fruición, con rabia…

Te puse en antecedentes, Jairo, querido. Eso fue lo que pasó, con toda esta parafernalia de narrador omnisciente. El resto ya lo sabes, rasqué la corteza del árbol hasta que el agujero fue lo suficientemente grande como para que cupieran mis hombros. Si yo hubiera sabido lo que me esperaba del otro lado tal vez no me hubiera puesto tan melodramática, arañando estas puertas a otros mundos. Tal vez no hubiera desaparecido por el buco tempoespacial tan pronto, me hubiera quedado más en la comodidad del monte.

Pero la vida real y las circunstancias a veces te llaman con una voz tan ruidosa, sonora, potente y seductora que la poesía y todos sus sucedáneos se quedan como attrezzo de las vicisitudes, a veces incluso llegan a desaparecer.

Decía siempre (me decía a mí misma) que alguna vez me iría sin quedarme y aquí me veo, en otra montaña, diseñando mi casa entre palmeras y naranjos. No pude pensar en los demás mientras me lanzaba al vacío porque nunca dije que sería una compañera de viaje de nadie hasta ahora y ambos sabíamos que contábamos con la independencia de la literatura también por separado.

¿Te acuerdas del día que cumpliste 40 años y te llegó aquella carta mientras ibas a buscar a tu hija a la escuela? No, claro que no, porque aún no los has cumplido, pero tampoco tengas muchas esperanzas en recibirla, porque ya te estoy escribiendo esta, y puede que en lo que llegamos a viejos y cuarentones se nos olvide mandarlas, o pierdas la dirección y estemos ya tan lejos y en otros países de los que nos habremos ya olvidado hasta el nombre.